
La recentissima sentenza n. 34293 del 2018 della Corte di Cassazione costituisce una interessante pronuncia in tema di responsabilità amministrativa degli enti ex D. Lgs. 231/2001 segnatamente per quanto concerne la misura cautelare del cd. sequestro preventivo “impeditivo” definito dal I comma dell’art. 320 Cod. Proc. Pen.
Il G.I.P. presso il Tribunale di Trani, aveva disposto un sequestro preventivo nei confronti di una società indagata del reato di truffa aggravata ex art. 640bis Cod. Pen., per fatto dei propri amministratori. Nella ricostruzione accusatoria, la società aveva indebitamente percepito erogazioni pubbliche attraverso l‘artificiosa creazione di tre serre fotovoltaiche, in realtà solo apparentemente dedicate a coltivazione agricola e a floricoltura. Ciò giustificava l’applicazione della misura cautelare reale del sequestro ai sensi dell’art. 321 Cod. Proc. Pen. degli impianti fotovoltaici di proprietà della società, in quanto beni che avevano permesso la realizzazione dei fatti-reato e di erogazioni pubbliche che altrimenti gli indagati non avrebbero potuto conseguire. La libera disponibilità di questi impianti, quindi, nelle motivazioni del G.I.P. avrebbero potuto aggravare o protrarre o agevolare la commissione di altri reati.
In relazione a tale decisione, la difesa dell’ente aveva dedotto, tra gli altri motivi, l’inammissibilità della misura del sequestro preventivo “impeditivo” di cui all’art. 321, comma 1 Cod. Proc. Pen., nei confronti degli enti sulla base di quanto previsto dalla lettera della disposizione dell’art. 53 del D. Lgs. n. 231/2001, che richiama l’art. 321 limitatamente ai commi 3, 3bis e 3ter, escludendo il riferimento al primo comma.
Sul punto la Corte ha però ritenuto che “a livello letterale, la norma che consente di applicare il sequestro impeditivo anche agli enti, va rinvenuta nell’amplissimo disposto dell’art. 34 D. Lgs. n. 231/2001, a norma del quale <<per il procedimento relativo agli illeciti amministrativi dipendenti da reato si osservano […], in quanto compatibili, le disposizioni del Codice di Procedura Penale e del D. Lgs. n. 271/1989>>”.
Inoltre, non appare superfluo evidenziare che si tratta di una interpretazione costituzionalmente orientata poiché consegna alla collettività un agile strumento di tutela finalizzato ad eliminare la circolazione di beni criminogeni. Se così non fosse, si teorizzerebbe un regime sanzionatorio privilegiato per l’ente rispetto a quello generale previsto dal codice di rito.
Inoltre, a livello sistemistico, la difesa censurava l’applicabilità dell’art. 321, comma 1 Cod. Proc. Pen. poiché le finalità precauzionali, che si potrebbero raggiungere attraverso tale istituto, sarebbero in sé estranee rispetto alla natura dell’ente, per il quale è previsto il sequestro solo funzionale alla successiva confisca. Viceversa, si creerebbe una sovrapposizione tra sequestro impeditivo e misura interdittiva.
A tal proposito, la sentenza in esame chiarisce come il campo di applicazione del sequestro impeditivo sia differente rispetto alle misure interdittive, in quanto:
- Le misure interdittive sono tendenzialmente temporanee a differenza del sequestro che, all’esito del giudizio, può divenire definitivo con la confisca;
- Le misure interdittive paralizzano l’uso del bene criminogeno solo in modo indiretto, mentre il sequestro colpisce il bene direttamente, eliminando il pericolo che possa essere destinato a commettere altri reati.
Il sequestro, infatti, è indirizzato verso le cose che abbiano una potenzialità lesiva dei diritti costituzionali e, quindi, è destinato a sottrarle alla disponibilità dei soggetti; al contrario, le misure interdittive sono dirette contro la società.
Secondo la Suprema Corte, infatti, il sequestro impeditivo ha una finalità che la misura interdittiva non possiede e, pertanto, enuncia il seguente principio di diritto: “in tema di responsabilità da reato degli enti e persone giuridiche, è ammissibile il sequestro impeditivo di cui al primo comma dell’art. 321 Cod. Proc. Pen., non essendovi totale sovrapposizione fra il suddetto sequestro e le misure interdittive”.
In ogni caso, spetta al PM, di volta in volta, individuare la misura più funzionale all’esigenza cautelare che si intende perseguire.
Alla luce del principio di diritto riportato, deve, pertanto, ritenersi legittimo il sequestro impeditivo nel caso affrontato, non essendovi dubbi sul nesso di pertinenzialità fra il reato contestato e le cose sottoposte a sequestro che, ove lasciate nella disponibilità della società, avrebbero continuato a produrre una lesione del bene giuridico protetto dalla norma penale.
A fronte di questa recentissima sentenza, però c’è chi mette in guardia sin da subito della portata di tale pronuncia. Tra questi, il Magistrato Ciro Santoriello avverte delle pericolose conseguenze derivanti dall’applicazione del sequestro impeditivo nei confronti degli enti collettivi poiché, seppur sia analogo il loro esito conclusivo dell’iter processuale, ben diversi sono i presupposti richiesti per l’adozione di una misura interdittiva e per l’emissione di un provvedimento di sequestro preventivo. Solo nel primo caso, infatti, è necessaria anche l’esistenza di indizi di colpevolezza nei confronti della società, mentre quando si tratti di adottare la misura reale è necessario solo l’astratta configurabilità dell’illecito. Per il celebre Magistrato sembra proprio questo l’intento della Cassazione con la pronuncia in oggetto: alleggerire l’onere probatorio per il PM quando lo stesso voglia intervenire sul funzionamento e sull’operatività dell’azienda consentedone l’arresto – non mediante il ricorso alla procedura per l’applicazione delle misure interdittive di cui all’art. 45 D. Lgs. n. 231/2001, ma – per il tramite dell’adozione di un decreto di sequestro preventivo.[1]
[1] “Quando il giudice si sostituisce al legislatore, anzi lo esautora: una strana e pericolosa decisione in tema di sequestro impeditivo nei confronti degli enti collettivi”, di Ciro Santoriello – www.giurisprudenzapenale.com, rivista giuridica registrata presso il Tribunale di Milano.